I cristalli di Calvino
Calvino, nelle Cosmicomiche, scrive:
“Sognai un mondo di cristallo… Crescevano poliedri alti come montagne… una vallata di berillo s’apriva allo scoperto, circondata da crinali d’ogni colore, dall’acquamarina allo smeraldo.”
Quel passo mi ha sempre colpita.
Forse perché, più di ogni altra pietra, il cristallo è la pietra che più amo: trasparente, ma mai vuota. Ti permette di guardare oltre, ma al tempo stesso, se ti avvicini, rivela un piccolo universo di imperfezioni, di riflessi, di inclusioni che si muovono come pensieri sospesi.
È una pietra che non si impone: lascia passare la luce, ma la trasforma. E in questo suo equilibrio tra chiarezza e mistero, c’è qualcosa di profondamente umano.
Calvino, che amava l’idea del cristallo come simbolo, ne faceva l’emblema del pensiero limpido, della razionalità come forma di passione.
Nelle Cosmicomiche, il protagonista sogna un solo grande cristallo, un ordine assoluto e definitivo.
Ma Vug, la sua compagna, preferisce “quando ce n’è tanti di piccoli”. Ama la varietà, la vita minuta, la bellezza imperfetta dei cristalli che non si ripetono mai uguali.
Io sto dalla parte di Vug.
Perché la perfezione, alla fine, non è mai interessante quanto la trasparenza attraversata da un’imperfezione che la rende viva.
“Ci vorrebbe il diamante, non da averlo noi, ma che il diamante ci avesse…”